Questo racconto si è clessificato al primo posto al Premio letterario 2021 del Centro culturale Antonianum di Milano, inoltre è finalista alla 15° Edizione del Premio Il giovane Holden di Viareggio.
La guerra del pane.
Avevo da poco compiuto sette anni ed eravamo in guerra da troppo tempo.
Erano giorni strani quelli dell’autunno del 1943.
Per quelli come me, che avevano tre anni all’inizio del conflitto, la guerra era la normalità, inconsapevoli di quella che era la vita in pace e incoscienti come tutti bambini.
Anche noi giocavamo con i soldatini e riuscivamo a dormire tranquilli anche nei rifugi.
Eravamo fortunati perché nella grande villa, nella campagna toscana, dove vivevamo con mio padre esonerato dal servizio per motivi di salute, mia madre, le zie e mia nonna il mangiare era poco ma non mancava mai. Con l’arrivo alla villa dei miei cugini avevo acquistato improvvisamente nuovi compagni di gioco e potevo togliermi dalle scatole quella prepotente di mia sorella più piccola che aveva trovato due cuginette da tormentare.
La grande villa, circondata da un parco di circa un ettaro, arrivava alla strada comunale dopo un breve viale alberato chiuso da un pesante cancello di ferro battuto. La via, che portava al paese Pievechiusa, divideva la nostra casa dalla piccola corte fatta da alcune costruzioni abitate da due famiglie di contadini a servizio di mia nonna. Il paese era molto piccolo, una Chiesa, una decina di case, la scuola era nella frazione vicina che distava circa un chilometro e mezzo.
Il mio primo anno delle elementari era passato abbastanza nella normalità, a parte qualche bombardamento che noi percepivamo solo perché vedevamo passare gli aerei alti nel cielo e sentivamo il suono delle sirene lontane.
Il secondo anno delle elementari iniziò nel solito modo ma, anche se eravamo piccoli, avevamo ben compreso che qualcosa era cambiato.
Il nostro gioco preferito era guardare i pochi mezzi a motore che passavano nella strada che portava verso la città. Memorizzavamo di ogni auto, moto, camion o trattore, la marca il modello e ogni particolare.
Non erano passati molti militari dal nostro paese, le uniche divise che avevamo visto erano quelle della milizia fascista indossate da alcune persone che frequentavano la nostra famiglia.
Nella nostra corte, un pomeriggio di Novembre del 1943 arrivarono una Volkswagen Kübelwagen e due grossi camion Opel-Blitz della Wehrmacht, carichi di soldati.
Erano i primi veri militari che noi ragazzini vedevamo, parlavano, o meglio urlavano una strana lingua che noi non conoscevamo.
Si stabilì così, occupando una parte della nostra casa, un tribunale militare tedesco e per un certo verso, questa fu una fortuna. Gli ufficiali, che da civili erano giudici o avvocati, erano uomini di cultura e generalmente non fanatici nazisti. Noi ragazzini non sapevamo bene chi erano i buoni e i cattivi, però quei militari non ci trattavano male anzi erano sempre gentili, inoltre il grande cartello appeso fuori dal cancello in fondo al viale, che recitava in lingua tedesca e in italiano:“Militärgericht -Tribunale Militare” si dimostrò un ottimo deterrente per le scorrerie delle SS che passavano nelle varie corti a rastrellare ospiti graditi per i campi di lavoro.
Alla mia precisa domanda su cosa era il tribunale militare babbo rispose che esisteva una legge per i civili e una per i soldati e spesso le due cose non erano proprio uguali, quindi era giusto ci fosse un tribunale speciale per i militari.
Spiavamo tutto quello che facevano i grandi riproducendolo visto con gli occhi dei bambini.Anche se eravamo piccoli, ci rendevamo conto che, quei poveretti che erano portati davanti ai giudici, con le divise sporche, a volte feriti avevano tutti la stessa faccia spaventata e con un’espressione strana negli occhi di disperata rassegnazione.
Ci salvava l’innocenza, l’incoscienza e il nostro impegno di trasformare in gioco tutto quello che vivevamo.
I tedeschi avevano uno strano pane di colore marrone verdastro, compatto, la forma sembrava quella di un mattone, sopra era impressa la data di produzione, che risaliva sempre a molte settimane prima, i soldati lo mangiavano secco. A volte qualcuno era così generoso da darcene un pezzetto, era duro, sapeva e odorava di soldato. Mi ricordo benissimo l’odore dei soldati era particolare, forse un misto di sudore, grasso delle armi e paura.
Presto si formò per gioco il nostro tribunale, uno di noi che faceva il giudice, un altro l’accusatore e di solito a me toccava la parte del difensore ma per il quieto vivere spesso ci alternavamo nei ruoli. Unico che voleva fare sempre lo stesso personaggio era mio cugino Gino, il più silenzioso ma ottimo osservatore, lui interpretava l’accusato. Ricordo ancora la sua bravura nel mimare la paura e la rassegnazione che vedevamo ogni giorno nei volti di quei poveretti.
Un pomeriggio il solito camion militare, che portava i colpevoli di diserzione o chissà quale altro reato, scaricò uno strano soldato. Era molto alto, magrissimo, con l’aspetto fiero, indossava una divisa stinta e logora che doveva aver visto tanta paura e tanta morte. Nonostante questo sorrideva, il suo non era un ghigno nervoso o strafottente, era un vero e sincero sorriso. I suoi grandi occhi celesti si guardavano intorno con curiosità ma non sembrava del tutto cosciente di quello che lo attendeva. Fu giudicato in nemmeno un’ora, uscì dalla sala, dove era impiantato il tribunale, in catene. Mentre lo spingevano a forza sul camion, che certamente lo avrebbe portato a un triste destino, si voltò e sorrise ancora, quel sorriso bellissimo è rimasto nei nostri cuori innocenti per molto tempo. Decidemmo che per noi, lo spilungone gentile, era un ufficiale che si era macchiato di una colpa che non aveva commesso, ma non rivendicava la sua innocenza per non accusare i suoi commilitoni. Gino decise di chiamarlo Hansel come il personaggio della fiaba e lo rappresentò benissimo, fu quella la sua migliore interpretazione. Nella stalla, che era la sede del nostro tribunale, Gino Hans era in piedi su una vecchia cassa di legno per mimare la sua alta statura, indossava come mantello un vecchio pezzo di lenzuolo azzurro pieno di macchie e di buchi ma che gli conferiva fierezza e coraggio.
Io ero il difensore e quando il cugino Gianni formulò la terribile accusa: “ Vigliaccheria davanti al nemico” pensai che avrei dovuto difendere con ogni mezzo quel poveretto. Non avevo ovviamente nessuna idea di cosa dire ma mi sentivo molto coinvolto e pronunciai la mia arringa tutto di un fiato:
- Signor giudice come potete pensare che Hansel sia un vigliacco? Lui è un buon soldato! Deve essere un bravo papà si vede dal suo sorriso. Guardate com’è magro, combattere con la fame rende deboli e voi con il vostro pane nero, del colore della popò di mucca, cattivo di sapore, secco e duro come il legno, affamate le vostre truppe. Se voi condannate quest’uomo fate un gravissimo sbaglio. I vostri nemici vinceranno la guerra, perché hanno ogni giorno pane fresco, bianco e morbido. Dovete trattare bene i vostri soldati, date loro delle divise pulite, sapone, buon cibo e loro combatteranno meglio.
Per alcuni attimi tutti restarono senza parole, i cugini più grandi non si aspettavano da un bambinetto come me una tal enfasi.Hansel dal nostro tribunale, purtroppo solo dal nostro, fu assolto, Gino riuscì per un momento a replicare perfettamente il sorriso che tanto ci aveva conquistato.
I mesi passavano e noi sentivamo raccontare da mamma e dalle zie che il fronte, costituito dalle forze di liberazione alleate, stava avanzando verso nord e presto sarebbe arrivato, questo era confermato dal rumore dei bombardamenti che ogni giorno sentivamo più vicini.
I bombardieri passavano nel cielo, da sud verso nord, poi si vedevano i caccia tedeschi che volavano alti tra le nuvole.
Una sera, chiesi a mio padre se era giusto che a liberarci dai tedeschi dovevano essere gli inglesi e i loro alleati. Semmai avrebbero dovuto liberarci gli italiani, come sapevamo che poi i liberatori non sarebbero stati meno gentili degli attuali occupanti? Babbo mi guardò con meraviglia, chiedendomi di parlare a bassa voce, mi rispose che non era ben chiaro nemmeno per lui.
La cosa da spiegare era complicata: quelli che prima erano i nostri alleati adesso erano nemici e quelli che prima erano nemici adesso erano diventati i nostri alleati. Non compresi bene allora quella spiegazione ma decisi che da grande non mi sarei alleato con nessuno.
I militari del tribunale tedesco nei mesi trascorsi in villa, anche se occupanti, avevano instaurato una specie di rapporto di buona convivenza, qualcosa che si avvicinava quasi all’amicizia. Il più gentile e disponibile era il capitano Marc che da civile faceva l’avvocato, appassionato del gioco delle carte aveva coinvolto mio padre in lunghe partite serali.
I soldati portati davanti al tribunale aumentavano ogni giorno, crescevano le diserzioni, le risse e gli atti di violenza sulla popolazione inerme.
Così, una mattina d’estate, il tribunale che richiedeva più spazio e altri addetti, fu trasferito in centro città.
Noi perdemmo l’ispirazione per il nostro gioco ma soprattutto la protezione che ci dava il cartello appeso sul cancello di ferro battuto: “Militärgericht”.
Sembrò così, per alcune settimane, tornare una certa tranquillità nella villa, nonostante fossero iniziati i cannoneggiamenti incrociati. Da nord sparavano i tedeschi e da sud rispondevano gli alleati, i proiettili passavano alti sopra il nostro paese ma qualcuno era corto e colpiva dalle nostre parti. Noi bambini, appena smessi gli scoppi, uscivamo dalle cantine a cercare le schegge delle granate arrivate corte, non per avere quei macabri trofei ma per puro spirito di avventura.
Verso la metà di settembre del 44 arrivarono due sottoufficiali tedeschi a bordo di una BMW R75 sidecar. Erano le retrovie di un esercito in ritirata, cercavano cibo e qualcosa da requisire, purtroppo zia Marta stava suonando la fisarmonica e decisero di requisirla rilasciando regolare ricevuta che ovviamente non aveva nessun valore. Portarono via anche parecchie bottiglie di vino che avevamo nascosto in una stalla. I due militari fecero poca strada, dopo nemmeno un chilometro, causa il buio o il vino, la loro moto sbandò finendo in un fosso prima di arrivare al paese vicino. Incolumi non vollero proseguire al buio e continuarono a bere vino; dopo, ubriachi, si misero a cantare e suonare la fisarmonica nel fosso. Proprio in quel momento stavano avanzando le avanguardie alleate, si trattava di soldati americani di colore. I liberatori ignoravano quale e quanta resistenza dovevano aspettarsi da parte del nemico. La pattuglia americana sentendo la musica e le canzoni pensarono a un gruppo numeroso di tedeschi asserragliati lungo il fosso a modo di trincea difensiva. I liberatori rimasero bloccati una notte e un giorno prima di scoprire l’inganno e proseguire verso nord.
Così fummo liberati, anche se noi bambini non ci sentivamo prigionieri e nella nostra innocenza pensammo che la guerra fosse finita.
Mia nonna radunò tutti nel salottino a piano terra, volle spiegarci che l’arrivo degli alleati era una cosa buona, ma i nemici erano molti, le sorti del conflitto erano ancora incerte e ci sarebbero voluti mesi o forse anni per la fine della guerra.
Ricordo ancora il momento dell’arrivo degli americani alla villa, lo stupore fu enorme, erano tutti neri dal soldato semplice al tenente che li comandava.
Osservavamo questi militari, molto diversi dai tedeschi che sembravano ben organizzati nel loro disordine.
Possedevano delle strane auto che chiamavano Jeep, ma sembravano delle grosse scatole con quattro ruote, i loro camion invece erano più grandi e più belli di quelli tedeschi, avevano strani nomi come Dodge o Jimmy.
Gli ordini erano impartiti con voce normale, quasi si trattasse di consigli o indicazioni, nessuno urlava, tutti fumavano e masticavano delle strane caramelle dolci fatte di gomma e non si dovevano ingoiare mai. A me piacevano perché ti facevano passare la fame, anche se il gusto non era sempre buono.
I soldati neri erano molto gentili, regalavano sigarette e tavolette di cioccolato a manciate. Le loro divise erano informali, sgualcite, sporche ma di buona fattura e non logore.
Gli scarponi erano polverosi, male allacciati ma con le suole quasi nuove.
Il comandante chiese a mia nonna, poiché padrona di casa, dove potevano montare le loro tende, tutti si stupirono perché mai nessun tedesco aveva chiesto il permesso per fare o dire qualcosa. Occuparono un grosso campo incolto a destra della villa e la prima tenda montata fu quella con la croce rossa e per seconda la cucina.
Un medico militare si rese disponibile per eventuali visite anche per noi civili.
In quei giorni soffrivo di un fastidioso mal di denti causato da un premolare da latte cariato, mia madre prese al volo l’invito e la mattina dopo mi trascinò, contro la mia volontà, alla tenda dell’infermeria. Ovviamente ci seguirono tutti i bambini per curiosità e per canzonarmi per la mia paura.
Il dentista era nero, grande e grosso che solo a vederlo metteva paura, mi cavò il dente ma non rammento un particolare dolore.
Dopo il piccolo intervento guardammo dentro la tenda della cucina, i cuochi sfornavano grosse pagnotte che per forma ricordavano il pane tedesco, ma erano morbide, del colore del latte, fresche di giornata e soprattutto sapevano di buono.
Con i miei cugini ci guardammo negli occhi, noi avevamo già capito chi avrebbe vinto la guerra.